domenica 13 dicembre 2015

"Logico, sì, è logico, ma è tutto quello che so"

Se proprio dovessi fare un commento sulla mia vita, mi verrebbe da dire che le riflessioni mi capitano quasi sempre per caso. Non ci penso mai sull'autobus o nella doccia o in un'altra di queste situazioni in cui produrre una riflessione profonda ci sta a pennello, le cose mi devono venire in mente sempre in momenti del cazzo.
Esempio - barra momento-per-cui-sono-qui.
Giovedì scorso guardavo la finale di xFactor e i quattro cantanti arrivati all'ultima puntata hanno avuto l'onore (e l'onere) di cantare con Cremonini (che a me piace tantissimo, ma probabilmente ve lo aspettavate). Tra l'altro, suona benissimo il piano e io sono momentaneamente in lutto perché online non si trova lo spartito de La nuova stella di Broadway. Comunque.
Ho ascoltato bene il testo di Logico#1. Poi ho ascoltato la canzone quindici volte di fila. Poi ho iniziato a pensare, e ho ascoltato la canzone altre volte, sempre di fila. Ed è successo di nuovo quello che mi succede con poche canzoni elette, penso sia comune alle persone.
Accade che in alcune canzoni ci sia una successione di note, due, tre, quattro al massimo, che mi proiettano in una dimensione che non conosco. Il tutto in quei pochissimi secondi in cui vengono spalmate suddette note. Un esempio è il "quasi mai" di "non succede quasi mai a due come noi". Non lo so cosa succede, ma è bellissimo. Un altro esempio era "no one" di "what's the best way no one knows" di Six degrees of separation degli Script.
Capita, a volte, che le mie riflessioni inizino da qualche nota musicale. Mi piace pensare che la mia sensibilità si accenda grazie alle voci.
E tutto questo preambolo iniziale mi riporta al titolo del post, che viene addirittura prima del preambolo ma okay. Scusate.
Mi sono accorta che tendo a forzare la mia vita dentro uno schema rigorosamente logico, e più vado avanti e meno so se è una cosa buona. Non riesco a fare nulla se non è il risultato di qualcos'altro. Come una formula chimica, parto dai reagenti per finire ai prodotti. E se i prodotti non sono quelli che mi aspettavo, mi turbo tantissimo.
Non è strano?
Da qui la mia tendenza a non credere in qualsiasi forma di religione, in quanto richiede di fidarsi senza avere prove tangibili di quello in cui si crede. Da qui anche la mia tendenza a non fidarmi poi così tanto delle persone, neanche fossero un valore di temperatura o pressione sconosciute, o un catalizzatore inaspettato, che potrebbe rovinare la mia reazione calcolata con un margine d'errore dello zero percento. Lo so che voi rimasti mi conoscete, perché per leggere questo post bisogna essere un minimo consapevoli della persona che lo ha scritto, quindi vi invito a chiedervi quale sia l'ultima volta in cui mi avete visto fare qualcosa senza sapere cosa ne sarebbe conseguito. Io non me la ricordo.
Però, dopo una di quelle riflessioni bestiali, che durano meno di un minuto ma durante le quali si ha l'impressione di aver capito tutto, ho capito come mi sento, cosa che non succede così spesso come dovrebbe.
Il mio modo di comportarmi assomiglia ad una funzione sinusoide - no, non sto per uscirmene con una nerdata rara (o forse sì?) e non sto nemmeno facendo la saccentella in matematica. Tanto lo sappiamo tutti che sono una pippa in matematica e in fisica.
(E allora come fai a calcolare precisamente le reazioni eccetera? Silenzio. Siamo nel campo delle allegorie, posso dire quello che mi pare.)
Una funzione sinusoide va lungo l'asse orizzontale del piano cartesiano all'infinito, ma non assume mai un valore più basso di un numero o più alto di un altro.
Quell'asse orizzontale x è un po' la linea comportamentale che cerco di seguire. Qualche deviazione c'è, ma mai oltre un certo limite, che non è nemmeno tanto estremo. Non so dove sto andando, ma so che lo sto facendo in un modo che mi piace.
Vi ricordate che un anno fa scrissi che consideravo i medici come eroi, e che speravo di indossare il camice, un giorno?
Beh.
Non porto il camice, ancora no. Però ho iniziato a studiare medicina, sto facendo qualche passetto in più verso la realizzazione del mio sogno. Sono spesso in mezzo ai medici, lo so che la loro vita comporta sacrifici in nome di quelle degli altri. Mi sento in grado di saperlo fare.
Quello che mi turba è il dilemma che ti pongono alla seconda lezione di storia, filosofia ed etica della medicina: stai studiando un'arte o una scienza?
Quant'è difficile rispondere.
La mia razionalità forzata mi impone di rispondere che sto studiando una scienza. Ho deciso che sto studiando una scienza, un gigantesco numero di reazioni chimico-fisiche, biochimiche, biologiche, farmacologiche e patologiche che nascondono sotto il mistero della vita, che un giorno - secondo me - non sarà più nemmeno un mistero.
Io sono convinta che tutto sia spiegabile con una reazione. Anche le emozioni, anche l'amore. Giuro che l'amore è colpa/merito degli ormoni, una roba chimica che se ne va a spasso per il corpo. Feniletilamina, noradrenalina, estrogeni, ossitocina, endorfine, eccoli i responsabili dell'amore. Altro che maledette farfalle nello stomaco, qui si parla di ammassi di carbonio, idrogeno, ossigeno e qualche altro fortunato elemento tipo l'azoto e lo zolfo, e tutti questi insieme stimolano il cervello e lo portano ad innamorarsi. Ma che non avete mai detto a un'amica quello lì mi fa salire gli ormoni?
(Per i ragazzi non conta. A voi fanno salire gli ormoni anche i comodini)
((Scusate))
(((Volevo essere simpatica)))
((((Però scommetto che le ragazze hanno sorriso))))


Certe volte vorrei uscire da questo schema.
"Perché non rimango in me?" [FK]

martedì 22 settembre 2015

Notturno no. 1 - Pensieri irrequieti

Buonasera, rimasti.
Lo so, è sera tardi. Molto tardi, se pensate che domani mi alzo alle otto in punto.
E se è mezzanotte e mezza e io sto scrivendo di nuovo qui, forse qualcosa non va. Tanto per cambiare, aggiungerei.
Non ho passato una bella estate.
Mentre tutti si divertivano, io sono rimasta a Roma quasi tutto il tempo, con ben poche persone a cui rivolgere la parola, impotente davanti alla home di facebook che si è riempita di 2k15 (davvero? 2k15? Vi prego). Un profondo senso di irrequietezza mi ha occupato il petto e sembra non volersene andare.
Cosa che invece tutti gli altri sembrano aver fatto senza problemi.

No, rimasti, lungi da me dire che sia colpa loro. Se la gente se ne va, forse è anche colpa mia.

E quindi oggi, 20- no, ormai 21 Settembre, sono qui a scrivere. Perché mi sono seccata.
Perché la sopracitata home di facebook è piena zeppa di foto di amici che sorridono contentissimi anche di essere tornati a scuola, anche di avere la maturità, pur di rivedersi tutti i giorni. Io sto per entrare in un mondo scandalosamente ampio, con il terrore che nessuno avrà mai voglia di parlare con me e con loro, i miei soliti fantasmi, quelli della solitudine, che ormai mi tormentano da anni.
In linea di massima, sono due i motivi per cui sto qui stanotte. Se proprio vogliamo andare mirati, intendo. Io sto qua perché sono mesi che sto così, ma stanotte due cose in particolare mi hanno dato l'input per essere qui.
Una mia conoscente, che ha cinque anni meno di me, pubblica una foto sul maledetto social abbracciata a un suo amico. Nulla di scandaloso o altro, per carità. Se due persone sono molto amiche, sono contenta per loro. La cosa che mi ha dato fastidio è la didascalia. Se un'amicizia dura più di sette anni, gli psicologi dicono che durerà per sempre.
Non sto commentando la stupidità di un'affermazione simile. Ne sto commentando la veridicità. Più precisamente, ne sto confutando la veridicità.
Questa ragazza non ha nemmeno quindici anni, non sto qui a scagliarmi contro di lei, poverina. Magari la sua amicizia con quel tipo durerà davvero per sempre.
Oppure (pessimismo in arrivo) magari no.
Sono così stufa di queste vane speranze.
Mi è capitato, più di una volta (più di due, di tre) di sentirmi molto legata a una o più persone. I cosiddetti pilastri, quelli che dovrebbero esserci sempre, quelli che avevano detto che sarebbero rimasti.
Bel condizionale, davvero.
Che sia stata colpa mia, se poi alla fine se ne sono andati, è indubbiamente corretto, ma cazzo, quanto mi sono stufata di tutto questo. Sta diventando sempre più dura. I pianti di notte, i pensieri bui, l'apatia, la convivenza con me stessa. Non ce la faccio più ad abitare nello stesso corpo che mi ha resa - e mi rende tuttora- infelice sotto tanti punti di vista.
Smettetela di crederci.
Le amicizie non sono eterne, non lo è l'amore, come può esserlo un legame meno forte di questo? La gente non torna, non se ne cura, non sente mancanze. La gente tira avanti facilmente. Se ne sbatte. Si diverte anche senza, non passa qualche sera a rimuginare sugli errori passati.
Siamo bruscamente divisi in due gruppi di persone, c'è chi rimugina e chi no. Chi piange e chi no. Chi sente le mancanze e chi no, chi ha paura e chi no. Mi fa così male pensare a tutto questo, ma allo stesso tempo non riesco a non farlo.
E magari ora stai pensando che questa è solo un'enorme rosicata, perché tutti hanno gli amici e io no.
Sai una cosa? Spero davvero che tu ti stia sbagliando.
Finché mi lamento di qualcosa di pubblicamente riconosciuto, posso sperare di non essere solo io il problema. Ma quando la faccenda diventa univoca, quando mi ritrovo davanti a me stessa, a tu per tu con la mia personalità, con quello che sono, con l'univocità del problema, è quello il momento peggiore. La tortura più grande, il momento in cui mi si dilania la mente. In cui mi dilanio la mente.
Vivo nel terrore.
Questo mi collega al secondo motivo per cui sono qui.
Una stronzata, una festa in arrivo. C'è una festa che dura fino a tardi, ma io dipendo ancora dai miei per farmi venire a prendere e non potrò fare così tardi. Una stronzata, ve l'avevo detto.
Ma tornano in gioco loro, i fantasmi. Quei fottuti fantasmi, che non se ne vanno mai.
Sono cinque anni che sono sempre la prima che se ne va. Ho dei genitori poco malleabili sulle questioni di orario, e mentre la gente rientra alle quattro, io rientro a mezzanotte. Ci sono feste che iniziano a mezzanotte, capiamoci. Io a mezzanotte me ne vado. La Cenerentola più depressa che abbia mai visto.
E la gente rimane lì. Quelli che si danno una parvenza di amici nei miei confronti, quelli che se siamo in un gruppo mi frequentano, ma che in cinque anni non mi hanno mai chiesto come sto. Quelli con cui sto perché sono pappa e ciccia con una persona molto importante per me, non perché tengano davvero ad avere la mia compagnia. (Potrebbe non essere vero, ma è questa l'impressione con cui convivo da anni. Chi prendo in giro?)
Restano lì, a divertirsi per ore ancora, e posso considerarmi fortunata se si scordano subito di me. Nella migliore delle ipotesi, la festa continua e tirano fuori i telefoni e si scattano foto bellissime da mettere sul maledetto social, ma sempre dopo che me ne sono andata. E ballano, bevono, mangiano e ridono, mentre io sto qui a scrivere o nel letto a piangere.
Nella peggiore, qualcuno commenta quanto io sia sfigata a dovermene andare quando la festa comincia.
Perché è così che mi sento, ve lo giuro. Roba che preferirei non andarci proprio, piuttosto che battere in ritirata con la coda fra le gambe a mezzanotte, a quasi diciannove anni. Cinque anni che esterno questa sensazione, mai nessuno che mi abbia rassicurata sul contrario. Mai nessuno che mi abbia aiutata a risolvere il problema. Siamo sempre io e loro, i fantasmi, a battercela all'ultimo sangue per chi vince. E vincono loro, perché io piango.
Piango anche adesso.




Se scrivo ciò che sento è perché così abbasso la febbre di sentire [FP]

lunedì 8 giugno 2015

Commiato - nontiscordardime

Sapevamo tutti che sarebbe arrivato il momento. E probabilmente, alcuni di voi si aspettavano qualcosa di scritto, conoscendomi. E penso sia arrivato il momento non di uscire dall'angolo in cui mi sono confinata (o almeno ho tentato di farlo), ma piuttosto di parlare da lì. Non serve che mi ascoltiate tutti, vorrei solo che sapeste che mi mancherà non vedervi più tutti i giorni. Una qualche lista non guasterà.

Inizio da te, compagna di banco. Stiamo sempre a dirci che tutto quello che penso lo sai, ma forse è arrivato il momento di dirtelo precisamente, un po' come una pubblica dichiarazione che non sconfini troppo nel privato ma che, contemporaneamente, non rimanga sui toni dolceamari dell'impersonalità. Anche se il nostro non è un addio, ma un arrivederci, mi mancherà non vederti tutti i giorni. La convivenza forzata in un'aula spesso forgia legami che, se messi alla prova, daranno poi a vedere se erano veritieri o meno. Io penso che il nostro lo sia; che, anche se dovrò abituarmi a non vederti più tanto spesso (e tu magari dovrai abituarti a non avermi più tra i piedi), quello che abbiamo continuerà, perché saremo noi a volerlo far continuare. Grazie per le risate, per i passaggi, per aver portato tu, con la macchina, il libro di filosofia, troppo pesante per accollarselo in autobus, per avermi fatto capire che non devo giustificazioni a chi non agisce per il mio bene, per non avermi detto subito che andavo bene, ma anzi per avermi aiutata ad individuare le strade di miglioramento da percorrere. In poche parole (anche perché ormai ne ho scritte fin troppe), grazie per essermi stata accanto mentre crescevo. È stato un onore per me fare altrettanto.

Commiato a te, amico del primo banco. Continueremo a mandarci foto da sganasciarsi e io parlerò di Castle e tu di GOT, senza che uno capisca l'altro. Mi devi ancora una partita con le Cards Against Humanity e trovo ancora incommentabile il fatto che tu non abbia visto Ritorno al Futuro. Ma, volendo tralasciare le cose più sciocche, il mio grazie e la mia gratitudine vanno a te, per avermi sostenuta anche quando sono stata una persona orribile nei confronti di tutto ciò che mi circonda.
A proposito, sfrutto l'occasione per ricordarti della scommessa. Aspetto il mio compenso.

Saluto voi, compagni di classe. Siamo stati comandanti e insieme equipaggio della stessa nave; una nave piena di buchi, strappi e toppe, ma una nave che, alla fine, al porto c'è arrivata. O magari il porto l'ha appena lasciato, dipende dall'interpretazione che volete dare.

Mi sposto di qualche metro. Arrivederci a voi, Perno, Silvia, Chiara, Zazza. Ricordatevi di me i sabati alla prima ora, quando vi chiedevo di essere adottata dalla vostra classe. Ricordatevi di me a ricreazione quand'è inverno e, stavolta, al termosifone non mi ci troverete più. Ricordatevi di me quando i professori sbagliano le parole o dicono qualche frase da ridere, ricordatevi degli abbracci prima dei compiti in classe, ricordatevi delle espressioni da esaurite che facevamo alla fine delle ore pesanti. Ricordatevi delle mie frasi contorte, della modalità-scaricatore-di-porto che assumevamo talvolta. Ricordatevi che io non ho mai conosciuto persone come voi, né penso di avere la possibilità di conoscerne altre. Siete ragazze meravigliose, è stato un onore poter essere compagne di ricreazione e di scleri. Non dimenticatemi, ma soprattutto, soprattutto, non sparite.
Mi mancherete troppo per smettere di sentirci.

Commiato, ragazzi di teatro. Giulia, Eli, Stent, Quo, Ele, Vale, Susi e gli altri, volevo evitare che questo si traducesse in una lista di nomi e basta. Sappiate che recitare mi ha dato la possibilità di scoprire, attraverso una maschera, chi sono veramente. Vi chiedo scusa per le tonnellate di pessimismo che vi ho scaricato addosso per tutto questo tempo, Vi devo ringraziare per l'essere stati un corpo unico di persone, nonostante ognuno pensasse cose molto diverse gli uni dagli altri.
Grazie ragazzi, siete stati fantastici. Mi avete fatto scoprire il mondo che c'è dietro ad una persona, avete curato, senza saperlo, la tristezza che spesso mi assaliva. In pratica, mi avete quasi salvata a colpi di pianoforte, risate e paura dietro il palco, e nemmeno lo sapete. O meglio, nemmeno lo sapevate. Grazie, davvero.

Dulcis in fundo, ciao amore mio. Per te poche righe, sia perché ci diciamo già tutto, sia perché mi piace mantenere quel grado d'intimità e segretezza che abbiamo fra noi, mi fa sentire più stretta a te.
Ora non è più ci vediamo a scuola domani, ora bisogna impegnarsi. So che ci riuscirò, che ci riuscirai, che ci riusciremo.
Abbiamo superato ostacoli più difficili.
Non posso dirti altro che grazie, sai bene tu per cosa.
Mi mancherà non vederti al quarto banco della fila a sinistra tutte le mattine.



Non ho una conclusione per questo commiato. Forse è perché non voglio ci siano, queste conclusioni di cui tutti parlano tanto.

No, una cosa da dire l'ho trovata. Spesso, quando è arrivato il momento di separarsi, disegno un fiorellino azzurro a tutte le persone che non voglio si dimentichino di me. Sono quei fiorellini azzurri di montagna, i più belli di tutti i fiori, dal basso della loro umiltà.
E quindi, commiato, amici miei, ecco i nontiscordardime.
Non dimenticatemi.

lunedì 15 settembre 2014

Ho smesso di aspettare, eppure sto ancora qui a scrivere

Ciao a tutti voi rimasti, o almeno ciao ai coraggiosi che ancora leggono quello che scrivo.
Sono stata inattiva di nuovo, colgo l'occasione per chiedere scusa una volta per tutte se ho dei periodi di stop molto lunghi. Sappiate che non ho un'agenda precisa con cui decidere come, cosa e quando scrivere, scrivo a tempo perso. Quindi non mi scuserò più per l'inattività, dato che sono una scrittrice a tempo perso e una pensatrice a tempo pieno. Se il mio cervello avesse un collegamento diretto con questo blog, vi assicuro che comparirebbero post ogni dieci minuti. (S)fortunatamente queste cose non esistono, quindi mi ritrovo a chiudere la mia prefazione per entrare nel punto della quaestio.
Stamattina mi ha scritto un amico che non sentivo da un'epoca, e fra le tante cose di cui abbiamo parlato mi ha chiesto come andasse col blog. Mi sono sentita in colpa e l'ho riaperto, ho riletto quello che scrissi mesi fa e ho pensato di non aver più nulla da scrivere.
Non ho sempre detto che si scrive solo quando si è tristi?
Beh, sì, si scrive solo quando si è tristi, e quindi mi sono detta di non aver bisogno di scrivere, sentirsi felici era davvero una gran bella cosa.
Ve lo ricordate tutto quell'aspettare di cui parlavo sempre?
Beh, ho smesso di aspettare, lui è tornato. E sì, finalmente posso parlarne apertamente e non solo pensarlo, ce l'abbiamo fatta. Tutti quei chilometri, quelle incomprensioni, quelle ore di fuso orario, tutti quei pianti e quei silenzi non ci hanno mai realmente divisi.
La normalità di averlo accanto mi si sta lentamente insinuando sottopelle, anche se ad oggi sono comunque di più i giorni che abbiamo passato distanti che quelli che abbiamo passato vicini.
Ce l'abbiamo fatta, e quando qualcuno mi chiede se ho un ragazzo io posso rispondere di sì, e posso raccontare brevemente di questa lontananza. La conseguenza è un ma che davvero? E come avete fatto?, sì, me l'hanno detto in tanti. E non lo so nemmeno io come abbiamo fatto, ma lui è qui e non esistono più i miraggi e le depressioni. Il numero dei problemi è sceso, ora posso permettermi di non essere più una squallida drama queen che si deprime per ogni cosa. Ora posso permettermi un minimo sindacale di felicità.

Ma allora perché sto scrivendo qui?
Bella domanda, davvero.
Vorrei avere una risposta pronta.

Sarà che la mia compagna di vita è la malinconia, che va a braccetto con la tristezza e insieme hanno preso residenza nel mio corpo senza che io gliel'avessi chiesto o che almeno avessi dato l'okay.
È troppo difficile essere felici, preferisco darmi alla tristezza. È facilissimo trovare un motivo per cui si è tristi, se ci pensate.
Qualche ora fa ho ricevuto una notizia disarmante, che non riporto perché non è importante.
È solo tornata la tristezza, e io sono tornata a scrivere.
E sapete come funziona, basta una goccia e poi ti ritrovi davanti un oceano.



Le cose sono cambiate in quest'anno di scuola, sono cambiate le persone a cui avrei dato la luna se me l'avessero chiesta, è cambiato il mio modo di vedere le cose, di affrontarle, di pensarle.
Colpa o merito?
Non lo so nemmeno io. Preferisco pensare colpa per alcune persone e merito per altre. Purtroppo sono una persona che porta rancore.
Ieri sera scorrevo le tane chat che ho su whatsapp e quando ho capito che stavo sbagliando era troppo tardi. Sono andata ad aprire una lista di messaggi tra me e una persona con cui non parlo da molti mesi, che mi ha ferito profondamente e poi se n'è andata, senza curarsi nemmeno di vedere se la ferita fosse cicatrizzata.
E purtroppo quella ferita, insieme ad altri cento taglietti, non si è mai cicatrizzata.
Capita di sentirsi soli anche se non lo si è, purtroppo. Benvenuti nella mia vita.
Perché le persone non pensano ai danni che provocano negli altri? Perché abbandonare qualcuno senza nemmeno una spiegazione? Come si fa ad ignorare anni ed anni passati cuore a cuore? Perché esiste chi è così crudele da pensare solo a se stesso e demolire chiunque non vada più bene?

Non sono mai riuscita a passare oltre questo colpo che ho retto a malapena.
Esiste qualcuno che cicatrizzi le ferite che altri hanno lasciato? Forse sì, ma è come avere una vecchia ferita di guerra: puoi non sentirla la maggior parte delle volte, ma ci saranno sempre quei momenti in cui il taglio torna a bruciare. Il giorno dopo è andato via il dolore, non lo senti davvero più.
O meglio, non lo senti più fino alla successiva volta in cui la ferita tornerà a farti vedere le stelle nel modo più doloroso possibile.
Ho sinceramente e seriamente bisogno di un modo per scappare da tutto questo.
Quante volte ho pensato a prendere un treno? Troppe.
Mi piace viaggiare in treno, mi piace spostarmi per ore senza parlare con nessuno, solo ascoltando musica.
Oh, questa è l'ennesima divagazione di questo post, il che mi suggerisce che forse dovrei smettere di scrivere e postare. Anche se ammetto che mi ha fatto bene mettere per iscritto tutte le cose che penso.
Beh, mi ero lamentata del blocco dello scrittore; chissà che quel blocco non riguardi solo le storie che invento.

Mi congedo, cari rimasti, mi congedo e rimando il prossimo incontro alla prossima volta che avrò così tante cose per la testa da sentire forte il bisogno di metterle per iscritto.

sabato 3 maggio 2014

Untitled - "pioggia" era il titolo migliore che mi veniva in mente, ma fa schifo pure questo

Ho voglia di scrivere, ma è mezz'ora che penso e non tiro fuori nulla. Ho cambiato un po' la facciata del blog, se ve ne siete accorti.
Perché la pioggia?
Potrei rispondere con un vago e antipatico perché sì, o perché decido io o che t'importa, ma dopotutto se tengo un blog è per condividere qualcosa con non-so-chi-mai-potrebbe-leggere-i-miei-sproloqui, e condividere il motivo per cui ho scelto un'interfaccia molto più scura dell'altra non mi sembra una cosa insulsa.
Quindi.
Pioggia perché siamo a Maggio (no, non alzate gli occhi al cielo, ha senso quello che sto dicendo), e Maggio è un mese in cui piove dentro o piove fuori. O magari entrambi.
Mettiamo che se quest'anno tira giù tutta l'acqua che ha piovuto l'anno scorso pioverà più fuori che dentro, ma questa è un'opinione personale sulla metereologia del cazzo di Maggio.
Pioggia perché sto attraversando una tempesta, una tempesta privata, alla quale nessuno può permettersi di assistere, alla quale non permetterei a nessuno di assistere. Una tempesta privata che sta accumulando nuvoloni su nuvoloni, tutti cumulonembi che non fanno altro che lampeggiare e tuonare e turbare la mia già-abbastanza-inquieta-grazie-non-mi-serviva-altro situazione. E questa tempesta sta durando più del previsto, motivo per cui ho quasi voglia di esternarla ma non so con chi. Più che altro la mia è una voglia spasmodica che qualcuno capisca cosa ho senza che glielo debba dire io, soprattutto perché cosa ho io non l'ho capito proprio benissimo.
È qualcosa che mi gravita in testa e che mi spinge a sentirmi una sciocca e un momento dopo a voler smettere di esistere. Si sta facendo insopportabile.
Anche se probabilmente no, non è vero, è soltanto l'elevamento a potenza di un problema ridicolo che tutti gli adolescenti operano costantemente su ciò che scurisce il loro mondo. È l'esagerazione dei piccoli disagetti che hanno i ragazzi della mia età, ma che però alla mia età sembra una tempesta.
Tempesta come quelle di Maggio.
Maggio è il mese in cui, dopo duecentodieci giorni che studi, ti chiedono di mettercela proprio tutta. Un po' come andare da un maratoneta che di chilometri ne ha già corsi quarantuno e chiedergli lo sprint finale per l'ultimo. Con la differenza che un maratoneta può mandarmi a quel paese, mentre io un professore non posso mandarcelo.
Maggio è il mese di chi aspetta.
Di chi aspetta cosa?
Mah, si possono aspettare un sacco di cose. Il risultato del test di medicina, il ritorno di qualcuno, un concerto, i gavettoni per la fine della scuola, l'inizio dell'estate, i prati pieni di fiorellini. C'è chi aspetta di potersi mettere i vestitini o gli shorts e chi aspetta i quadri per vedere se poi alla fine matematica gliel'hanno data davvero.
Ce l'ho col tempo, lo so. Odio aspettare ma alla fine aspetto sempre.
Del resto, se ci pensate, la nostra vita non è altro che riempire le giornate in attesa di qualcosa.
Perché siamo abituati a scandire la vita lungo una linea del tempo sulla quale segniamo dei punti fermi e riempiamo lo spazio fra un punto e l'altro.
(Sì, si scrive segniamo e non segnamo. Avevo dei dubbi pure io ma Serianni docet.)
Per punti fermi non intendo le cose *davvero* importanti, come imparare a camminare o primo bacio o primo libro senza illustrazioni (per me la sequenza non è stata questa eh. Non sono né stupida e né gnocca *inserirefaccinadivertitaQUI*). I punti fermi sono soltanto cose diverse dalla routine che siamo in grado di prevedere.
Non parlo solo della fine della scuola, che dopo otto mesi di routine arriva e dà una scossa alla solita vita. Un viaggio, il proprio compleanno, un'uscita con il ragazzo, un appuntamento su skype.
Quante volte succede di guardare il diario o il calendario o l'orologio o l'agenda o il telefono -insommaavetecapito- e pensare "fra due ore devo [...], intanto che faccio?", eh?
Quante volte capita di riempire spazi vuoti con cose che sarebbero bellissime anche senza quell'impiego di tappabuchi che diamo loro? Fra trentasette giorni succede quello che sto aspettando da metà Gennaio, e quindi intanto io studio, vado a correre, scrivo. Sto passando giorni che non sono altro che riempire spazi vuoti. Tutti riempiono spazio con roba, e non so quanto possa essere appagante vivere nell'attesa di qualcosa. Anzi, probabilmente lo so, solo che sto ignorando la risposta, dal momento che sono la prima della lista di chi vive aspettando.
Ultimamente ascolto canzoni che portano malinconia, guardando l'asfalto che corre dal finestrino di un sovraffollato 343 di ritorno da scuola. Se vi state chiedendo cosa intenda io per malinconia, questa è la canzone italiana e questa quella inglese che per me sono le malinconiche per eccellenza.
Ho letto da qualche parte che una persona è veramente triste quando mentre viaggia in macchina o in autobus guarda l'asfalto e non il cielo. Tralasciando tutta la polemica che potrei fare riguardo al fatto che se stai guidando la strada devi guardarla per forza, felice o triste che tu sia, direi che è vero. Non me ne voglia chi potrebbe stizzirsi dopo questa frase, ma io la trovo veritiera perché è qualche mese che guardo solo l'asfalto che viene mangiato dalle ruote, il cielo non è nemmeno più un optional degno di essere considerato.
Però pazienza, sto affrontando la mia tempesta privata ma, come dicono gli Afterhours, torneremo a scorrere. E se lo ripetono quattro volte un motivo c'è, ne sono convinta.
Rimanendo sul testo di Ci sono molti modi, direi che mi sento l'eroe dell'inferno privato di qualcuno. C'è lì fuori -spero- qualcuno che, davanti al suo inferno, non si è arreso e ne ha trovato un eroe. Che poi sarei io. O beh, io almeno un eroe del mio inferno privato ce l'ho.
(Se non state capendo di cosa sto parlando siete indegni. Perché avete straboicottato i miei link. E comunque sto parlando della canzone italiana che ho citato prima, quella malinconica. E sì, se non l'avete ascoltata perché siete felice e non volete ansia... Beati voi ♥)
Questa canzone mi evoca sempre le stesse immagini. Provate a sentirla, davvero. Io non lo conoscevo l'alternativo italiano e rifuggivo tutte le canzoni a prescindere, poi il ragazzo che mi piaceva mi aveva chiesto se mi andava di sentirmela e mi aveva offerto una cuffietta e NONPUOIDIREDINOAQUELLOCHETIPIACE, l'ho sentita e mi è piaciuta. Davvero, almeno provateci. Ogni volta che la ascolto penso al buio della periferia romana, poche centinaia di metri fuori da casa di quel ragazzo, alle solite undici e mezza di sera. I primi quattro accordi mi evocano buio, due o tre nuvole e la luce della luna, qualche lampione bianco-giallastro a tentare di illuminare una scena che non ha bisogno di luce perché va bene così. Mi fa bene ascoltarla, ha un effetto catartico che fa uscire tutta la tristezza che c'è nella mia mente. Forse i presagi (ma tralasciamo il lasciandoti fottere forte, eh), spinti via dal cuore, su in testa e poi soppressi. L'effetto catartico è questo, alla quarta o quinta volta che la riascolto magari piango, okay, ma almeno quei presagi li ho soppressi. Ogni volta che sento quel pezzetto penso ad una ragazza che, nel buio della periferia prima citata, prende le spinte e intanto ha gli occhi aperti, non guarda chi la sta prendendo ma guarda il blu scuro del cielo, con le lacrime agli occhi, sperando disperatamente che quei pensieri vadano via, dopo che le ha tentate tutte perché spariscano. Per non parlare poi dei tre ritornelli, che si assomigliano ma non sono uguali.
Non sai che l'amore è una patologia, saprò come estirparla via.
Vedrai che il mio amore è una patologia, saprò come estirparla via.
Lo so che il mio amore è una patologia, vorrei che mi uccidesse ora.
Fino a cinque mesi fa ero sicura e convinta dell'ultima delle tre, che interpretavo come un okay, se la vogliamo mettere che l'amore è una malattia allora sì, che mi uccida pure. Ora la reinterpreto in chiave più tetra e quindi lo so, non vedrai, non non sai, perché lo so non richiede una seconda persona cui riferirsi. E torneremo a scorrere, ma scorrere vuol dire passare, vuol dire semplicemente tornare alla routine iniziale. Torneremo a scorrere lo dice una persona che ormai è così tartassata dalla solitudine e dalla malinconia che ha iniziato a pensare che l'amore per cui valga la pena di fermarsi non esiste in questa fetta di mondo.
E questa è la mia umile interpretazione, non me ne voglia chi la pensa diversamente.
Golden invece (sto parlando della seconda canzone, quella dei Fall Out Boy) è pioggia. Ascoltate l'intro, i primi accordi di piano, quella è pioggia battente. Golden è un ragazzo che cammina sotto la pioggia senza coprirsi, forse confondendo lacrime e gocce o forse no. Potrei rifarmi ad un verso di Iris dei Goo Goo Dolls, and you can't fight the tears that ain't coming. Non puoi farci nulla se non ti viene da piangere. E forse la malinconia senza lacrime è ancora peggio di quella con i pianti epici. Non c'è tanto da dire su Golden, non ne ho ancora capito il significato. Golden è semplicemente una malinconia senza lacrime, dove al pianto mancato supplisce la pioggia. È il canto del cigno di una persona scansata da tutti. È forse l'ampliamento di quel no one really seems to care che Billie Joe Armstrong canta nella seconda parte di Jesus of suburbia (quanto adoro quella canzone?).
Forse ho scritto troppo stavolta. Dovrei trovare la forza di studiare. E magari di scrivere.
E forse dovrei pure imparare a scrivere conclusioni decenti, visto che non mi soddisfano mai.

venerdì 28 marzo 2014

Ho paura dei ricordi

Sono tornata dopo un mesetto abbondante di silenzio.
Perché sono stata zitta? Non lo so.
Di solito scrivere quando si è tristi fa bene, io non mi sento bene per niente. Stendiamo un velo, è vero che questo è un blog personale ma non permetterò che si trasformi in un circo di autocommiserazione di una ragazzina che sembrerà agli occhi di tutti un'attenction whore.

Ho fatto una stupidaggine.
Sono andata su Spotify e ho attaccato una playlist di musica triste.
Stasera mi va di parlare di ricordi.
Fermatevi un attimo, andate su Spotify anche voi o prendete una playlist abbastanza lenta e mettetevi un secondo a pensare. Quanto poco spesso ci si ferma a pensare?
Sono convinta che la maggior parte dei pensieri spontanei profondi venga prima di dormire. Forse è per questo che ci sono persone che passano notti scombussolate e in preda ai movimenti.
Sto perdendo il filo del discorso.
Mettetevi a pensare un attimo, dicevo. Cercate di richiamare alla memoria una persona, un luogo a cui non pensavate da tanto.
Oggi pomeriggio stavo su Skype con un amico conosciuto in vacanza da cui mi dividono ottocento e passa chilometri, stavamo parlando di quelle due settimane che abbiamo passato insieme. Lui non si ricordava un sacco di nomi che io in realtà ricordo alla perfezione, o quasi.
Mi ha spaventato, ma solo per un secondo.
Scordarsi di qualcuno, depennarlo dai propri ricordi, smettere di rivolgergli la mente, non è agghiacciante?
Sono andata sul dizionario etimologico, sapevate voi da dove viene la parola ricordare?
Ha la radice cord, che si ritrova nella parola cor, cordis, che vuol dire cuore. Tutto perché in antichità si credeva che la memoria stesse nel cuore e non nella mente. (Non mi credete? http://www.etimo.it/?term=ricordare&find=Cerca - e non mi crede mai nessuno, quindi yeah :') - )
Tecnicamente, scordarsi qualcuno allora vuol dire metterlo fuori dal cuore. E questo sì che mi spaventa, perché essere ricordata per me è importante.
Non sto dicendo che mi piace essere messa su un podio da qualsiasi forma umana abbia respirato nei miei due metri quadri di spazio di vitale per più di dodici secondi, sia chiaro, non ho manie di protagonismo. Forse. E se ce le ho, meglio soffocarle.
Alla fine ci vuole così poco a ricordare un nome. Una manciata di lettere e una faccia da richiamare alla memoria ogni tanto. Passare davanti ad una gelateria e pensare oh, a Sofia piace così tanto il gelato al pistacchio che ci si farebbe il bagno.
(CHE IMMAGINE ORRENDA CHE HO DATO DI ME FERMATEMI AIUTO)
Vedere che è appena uscito Captain America 2 al cinema e pensare OHMIODIO CHRIS EVANS IN CALZAMAGLIA immagino che Sofia sia già praticamente in coda per comprare il biglietto. Piccole, minuscole cose, cose che non vanno nemmeno riferite all'interessato ma che sono così gratificanti.
Passo a piazza di Spagna e vedo un pianoforte a quarto di coda con un uomo che lo accorda e mi viene in mente Filippo, che suona da Dio. La radio passa quella canzone (orrenda) di Will.I.Am e Britney Spears (abbiate pazienza se non mi ricordo il titolo) e a me passa per la testa Andrea, che la adorava e che quella volta che l'autista del pullman a Madrid l'ha messa mi ha guardato e ha detto alla faccia tua. Vado a una festa e mettono Limbo, l'ennesima canzone che mi fa schifo ma che ballava sempre Gianluca, e tentava di convincermi che era una figata di canzone. Il mio professore cita la successione di Fibonacci e in mente mi ci torna Giada, che mi aveva fatto sentire una canzone in cui vengono cantati gruppi di sillabe corrispondenti a quella successione lì.
Mi trovo molto spesso a chiedermi se qualcuno di me si ricorda in questi termini.
Mi fa paura essere dimenticata perché si vive sempre, finché si è nei ricordi degli altri. Un giorno mi ritroverò a guardarmi indietro e tutto quello che ricorderò sarà un'accozzaglia di volti senza nomi o nomi senza volti.
La mente umana non può contenere tutto, sfoca e cancella quello per cui non c'è spazio, è una cosa tremenda. È il grande limite degli uomini, non ci si può ricordare di tutto e non si può essere degni di essere ricordati per tutti.
Lo troverò triste per sempre.
È per questo che quando vado due settimane in vacanza studio e conosco persone meravigliose che so che sarà difficile rincontrare, disegno loro un fiorellino azzurro da qualche parte.
Sì, esatto, uno di quei fiorellini azzurri di cui sono piene le colline e le montagne poco alte, i nontiscordardime.
Ragazzi, mi rivolgo a voi quattro che ho citato prima. C'è ancora il nontiscordardime sullo zaino dal colore improbabile?
Mi mancate.

Ho sempre avuto paura dei ricordi.
Sono in una posizione in cui ho paura che una persona in particolare mi dimentichi perché so di essere una persona ordinaria.
Sono alquanto sicura che il terrore di essere dimenticata mi si appiccicherà addosso violentemente per ancora tanto tempo. Qualcosa come un numero a tre cifre di mesi o similia.
Tocca che me ne vado a letto, sono le undici e mezza.
Vado a dormire inquieta, ma tant'è.
Buonanotte ragazzi.

domenica 9 febbraio 2014

Tempo, flappy bird e Voltaire

Sono reduce da due ore di rivoluzione francese ed ho il cervello abbastanza in pappa; si è salvato un solo pensiero, che tra l'altro mi martella in testa da qualche giorno.
Ci avete mai pensato che il tempo nei libri (o nei film) passa in una maniera talmente veloce da essere incontrollabile?
Mi riferisco a qualsiasi espressione di filmografia o letteratura, non a qualcosa in particolare.
Leggevo prima della rivoluzione francese sul mio libro di storia, unendo anche le note a margine scritte a matita con una grafia che nemmeno il miglior farmacista di sempre decifrerebbe facilmente, e mi sono accorta che ci sono alcuni fatti riassunti in una manciata di parole che non rendono affatto quanto due secoli e mezzo fa sia stato tremendo aspettare. Quando leggo che Luigi XVI annuncia nell'Agosto 1788 che gli Stati Generali si riuniranno nel Maggio 1789, non ci penso che milioni di persone hanno aspettato questa riunione (che poi a conti fatti è ciò che ha dato il via alla rivoluzione) per quasi un anno, dilaniandosi nell'attesa più atroce.
Qualche mese fa ho letto Candido, di Voltaire, ed è allora che questo pensiero mi è balenato in mente per la prima volta. Una frase all'inizio del capitolo ventiepassa recita "passarono molti mesi". Così, con tre parole liquida giorni su giorni durante i quali, evidentemente, non è successo poi un granché.
Questo è ovvio, se voleste raccontare la vostra vita, non vi mettereste di certo a fare la descrizione di ciò che è successo ogni giorno. Ci sono settimane, mesi, addirittura anni che possono essere riassunti in una frase nemmeno troppo articolata. Trovo che sia quasi tragicomico il modo in cui, fra cinque o sei anni, quando e se qualcuno ci chiederà qualcosa come come hai passato il liceo?, noi risponderemo bene, sono uscito con *** (mettiamo tre asterischi, sperare è concesso a tutti).
Liquidare cinque anni in poche parole? Sì, si può fare.
Eppure cosa è successo in cinque anni? Così tante cose che non basterebbero altri cinque anni per raccontarle, tenendo in considerazione che non è mai possibile spiegare soltanto cosa è successo, ma la nostra mente contorta ci aggiunge anche perché, quando, dove e altri particolari che non noti mentre vivi, ma che sono necessari quando racconti.
Mi spiego.
Supponiamo che oggi pomeriggio io non abbia avuto voglia di studiare storia e sia rimasta attaccata al telefono tutto il tempo. Supponiamo che io abbia chattato, visto qualche immagine divertente su facebook, telefonato a un'amica, giocato a flappy bird (quanto cazzo è intrippante quel giochino maledetto? E il mio record è tipo 25) e poi si sia fatta ora di cena.
Insomma, supponiamo che io non abbia fatto assolutamente nulla di utile per un intero pomeriggio. Quattro ore assolutamente inutili, che a passare ci hanno giustamente messo quattro ore.
Supponiamo che domattina io vada a scuola e la mia compagna di banco mi chieda se ho studiato.
Ovviamente non mi limiterei a risponderle no, anzi. Probabilmente passerei almeno tutta la prima ora a raccontarle perché non mi andava di studiare (sempre che lei non mi abbia falciata dopo i primi venti minuti), eppure mentre mi intrippavo con flappy bird mi stavo chiedendo perché non avevo voglia? Assolutamente  no. Quindi ho già passato un'ora a parlare del mio pomeriggio di quattro ore senza spiegare cosa ho fatto.
Supponiamo che lei mi sopporti così tanto da chiedermi cosa ho combinato (Lolla, se stai leggendo qui, sappi che ti voglio bene ♥). Le racconto dunque che ho chiacchierato su whatsapp con una persona in particolare e poi, visto che sono espansiva e che lei non dà segni di cedimento, le racconto due o tre cose che mi sono state scritte, iniziando a descrivere anche come mi sono sentita a riceverle e assumendo un'inquietante vocetta stridula, mentre i miei occhi si fanno a cuoricino. (Che schifo, lo so.)
Ed è passata un'altra ora, intanto, e sono due ore che parlo del mio pomeriggio di quattro ore.
Poniamo poi che Laura (è lei la mia compagna di banco) mi chieda se ho davvero passato un intero pomeriggio solo a chattare. Io le rispondo di no, le racconto delle immagini divertenti cacciando fuori il telefono e facendole vedere quelle che ho salvato, partendo poi in una digressione in cui le descrivo le pagine da cui le ho prese e gliene faccio vedere altre, protraendo tutto fino alla fine della ricreazione.
Complimenti, Sofia, sono tre ore e un quarto che parli del tuo pomeriggio di quattro ore e non stai nemmeno a metà. (Per non parlare della povera Laura, che a quest'ora mi avrebbe già tirato il banco.)
Okay, facciamo finta che chiunque, dopo avermi ascoltato per tre ore e un quarto, abbia il coraggio di chiedermi ancora cosa ho fatto.
Parlando della telefonata all'amica riderei da sola per cosa ci siamo dette, spiegherei alla mia compagna di banco chi è questa amica, da quanto la conosco, la sua situazione e tutto quanto, prolungandomi per troppo tempo. E dovrei ancora attaccare il pippone su flappy bird, smadonnando in qualche lingua perché ogni volta che comincio a giocarci ci sono le sette-otto volte di rito in cui non faccio più di tre.
La morale qual è?
Se qualcuno avesse davvero il coraggio di chiedermi cosa ho fatto la domenica pomeriggio, mi terrebbe sei ore a parlare di un pomeriggio di quattro.
Eppure, Voltaire usa tre parole per indicare il passaggio di mesi. Perché?
Secondo me perché non è possibile parlare di un grande lasso di tempo specificandone ogni momento, figuriamoci scriverne.
L'esempio lampante che dimostra la frase che ho appena detto è che io scrivo dalle otto e mezza (ora sono le dieci), ma tutte queste cose le avrò pensate in... dieci minuti?
Ci si mette sempre molto meno tempo per pensare o dire che per scrivere. Chi avrebbe voglia di impiegare anni a leggere il racconto di mesi? Nessuno.
Voltaire, eri fottutamente avanti ♥
(Oh, amo Voltaire. Non ve n'eravate accorti?)
E quindi niente, questa è una delle cose che penso sul tempo. Ci vuole abbastanza per viverlo, poco per pensarlo, tantissimo per dirlo, troppo per scriverlo e un attimo per ricordarlo.
Che cosa strana, il tempo.